gestione delle risorse umane e organizzazione del lavoro.
di Giulio Bruno
Premessa
Il contratto integrativo sottoscritto il 29.7.2010 ha segnato, com’è noto, la nascita del nuovo ordinamento professionale del personale dell’Amministrazione giudiziaria.
Un approccio di tipo minimalista alle novità dei nuovi profili professionali si spiegherebbe pur sempre, a mio avviso, per via della consapevolezza che presunte incongruenze della disciplina contrattuale e possibili conseguenti ricadute in negativo sugli assetti organizzativi degli uffici e sulla concreta gestibilità delle risorse umane sono decisamente recessive rispetto a quello che appare essere oggi il Grande Problema: la sempre più grave inadeguatezza degli organici effettivi di cui dispongono gli uffici giudiziari.
Questione che finisce, sempre a mio avviso, per rendere evanescente e quasi accademico ogni discorso sulla consistenza, oggi invero fittizia, degli organici di diritto.
Questi sono i motivi che mi inducono ad associare, all’analisi dei nuovi profili professionali varati dal contratto integrativo, alcune brevi riflessioni su alcune questioni di attualità in tema di organizzazione del lavoro e di gestione delle risorse umane, anche tenendo conto di alcune modifiche non del tutto marginali che il d. lgs. n. 150/2009 ha apportato alla disciplina delle mansioni nel rapporto di lavoro con la pubblica amministrazione – contenuta nell’art. 52 del d. lgs. n. 165/2001, modificato dall’art. 62 del decreto 150 suddetto (degna di interesse è l’evoluzione storica di tale disciplina) – e per quanto il dibattito che si è sviluppato all’indomani del’entrata in vigore del c.d. decreto Brunetta abbia, non del tutto a ragione, quasi completamente trascurato tali innovazioni.
1) L’ordinamento professionale di cui all’allegato A) del C.C.N.I. 29.7.2010.
1.1) La generalizzazione dell’obbligo di utilizzare gli strumenti informatici e il profilo professionale dell’ausiliario.
L’art. 13 del nuovo contratto integrativo prevede che “tutti i dipendenti sono tenuti ad avvalersi … della strumentazione informatica …”, a differenza di quanto prevedeva l’art. 20 del contratto integrativo del 5.4.2000, che escludeva dalla soggezione a tale obbligo gli ausiliari A1. Coerentemente, nei contenuti professionali del profilo professionale dell’ausiliario sono previste “attività ausiliarie … con l’ausilio degli strumenti in dotazione, anche informatici …”. Questa, a mio avviso, è l’unica novità, ma importante, del profilo dell’ausiliario.
Una novità che segna certamente un’importante opportunità di accrescimento della professionalità effettiva degli ausiliari e un’occasione, per l’Amministrazione, di valorizzarne utilmente le potenzialità.
1.2) Il profilo professionale del conducente di automezzi.
Per quanto riguarda l’attività dei conducenti di automezzi, va ricordato che tali impiegati, “senza pregiudizio per il recupero delle energie psicofisiche, possono svolgere anche mansioni attribuite all’operatore giudiziario, quando non impegnati nelle mansioni proprie del profilo”.
E’ notorio che, diminuite sensibilmente le autovetture in dotazione agli uffici giudiziari, le mansioni, altre rispetto a quelle di conducente (proprie del profilo), diventano, di fatto, prevalenti e, in taluni casi, tendenzialmente esclusive. Il contratto integrativo riconduce le mansioni ulteriori (rispetto al profilo di conducente) a quelle del profilo dell’operatore giudiziario (ex operatore B1), con un metodo di equiparazione non dissimile, nei risultati, dal precedente sistema. Tuttavia, i conducenti di automezzi non sono più ausiliari (B1) e sono collocati in area (la seconda) che spazia sino a ricomprendere i cancellieri (ex B3) (collocazione del resto non dissimile dalla precedente, che era quella dell’area funzionale B). Il risultato sembra essere quello di affrancare ulteriormente i conducenti dai compiti di ausilio più semplici.
Anche qui, comunque, come per i (nuovi) assistenti giudiziari di cui si dirà, in un contesto normativo (contrattuale) che rende comunque lecito richiedere e doveroso riconoscere qualcosa di più concettuale e meno esecutivo, occorrerà verificare come in concreto la professionalità formalmente attribuita saprà calibrarsi sulla realtà dei fatti (natura delle attività, esigenze delle singole cancellerie e specificità del singolo dipendente). E, in tal senso – fermo restando che l’uso degli strumenti informatici diventa per tali impiegati ancor più opportuno-doveroso – è ragionevole ritenere che le singole attitudini personali avranno un ruolo ancor più decisivo.
1.3) Il profilo professionale dell’operatore giudiziario.
Connotazione tendenzialmente esecutiva – nel senso di attività sprovvista di pregnanti profili di autonomia – appare ricevere dal contratto 16.12.2009 la figura dell’operatore giudiziario (ex B1), pur collocata nella medesima seconda area cui appartengono sia l’assistente giudiziario, sia il cancelliere.
Nulla di importante da rilevare in proposito, a mio avviso.
1.4) Il servizio di chiamata all’udienza.
Il precedente contratto integrativo 5.4.2000 prevedeva tale compito sia per il profilo dell’operatore giudiziario B2, sia per quello dell’operatore giudiziario B1.
L’attuale ordinamento professionale prevede il servizio in discorso solo per l’operatore giudiziario (ex B1).
In considerazione della grave carenza di risorse, osservo:
a) il servizio è stato sinora svolto, in alcuni uffici giudiziari, anche dal personale ausiliario (attuale ausiliario area I); si è trattato di attribuzione non prevalente di mansioni di maggior pregio rispetto alle altre previste dal profilo (mansioni superiori non prevalenti; tuttora attribuibili in via generale); nulla al riguardo è cambiato rispetto al passato;
b) il coinvolgimento, pur limitato a poche udienze, degli attuali assistenti giudiziari – trattandosi di mansioni inferiori – è possibile a condizione che sussista il pieno consenso dell’interessato (come rilevato al successivo punto 1.6);
c) sia per gli ausiliari, che per gli assistenti giudiziari, non può sussistere, a mio avviso, alcun problema per il pagamento della relativa indennità, cui si ha titolo per il solo svolgimento dell’attività, a prescindere dalla qualifica rivestita;
d) per lo stesso motivo e alle stesse condizioni previste alla lett. b), possono essere utilizzati, previa espressa determinazione del capo dell’ufficio giudicante (dal quale, com’è noto, dipende tutto il personale di tali uffici), anche gli ex operatori B2 degli U.N.E.P., cui peraltro era un tempo istituzionalmente affidato il servizio in discorso.
1.5) I profili professionali dell’assistente giudiziario e del cancelliere.
L’inclusione nella stessa area (la II) e la previsione, per entrambi, di compiti di assistenza al magistrato e di redazione e sottoscrizione di verbali indubbiamente rendono parzialmente fungibili le figure professionali dell’assistente giudiziario (ex operatore B2) e del cancelliere (ex cancelliere B3). La distinzione appare allora fondarsi, a mio avviso, sul riferimento, per gli attuali assistenti, ad attività preparatoria rispetto alle funzioni tipiche delle professionalità superiori e nella connotazione quale qualificata dell’attività di collaborazione al magistrato, con riguardo alla figura-profilo del cancelliere (ex B3).
L’esplicito diretto collegamento dell’attività di assistenza alla collaborazione qualificata al magistrato, nel profilo del cancelliere (“anche assistendolo nell’attività istruttoria o nel dibattimento”), a fronte di previsione della stessa attività quasi a titolo di mera integrazione dell’insieme delle mansioni richiedibili, con riguardo al profilo dell’assistente giudiziario, induce, a mio avviso, a ritenere che l’assistenza al magistrato in udienza resti prevalentemente (non esclusivamente) attività propria del cancelliere (di coloro che sono inquadrati in tale profilo), per il quale si assiste in effetti alla consacrazione di un nesso stretto di derivazione prevalente e qualificata, dell’assistenza in udienza, dalla collaborazione al magistrato.
Tuttavia, tenuto conto che la stessa attività può (deve) essere espletata anche dal funzionario giudiziario (ex C1) e che gli organici effettivi garantiti agli uffici per la realizzazione dei loro compiti istituzionali presentano oggi lacune e incongruenze (relative all’abbattimento di talune categorie per effetto dei non governabili pensionamenti), saranno le specifiche esigenze di ciascun reparto, sotto la vigile direzione dei direttori amministrativi, ad orientare e definire la distribuzione, con prassi organizzative che si andranno a definire nel tempo ma che tuttavia proprio nel tempo sono suscettibili di variazione al mutare delle esigenze stesse, tra i lavoratori delle tre categorie interessate le singole prestazioni di assistenza in udienza.
A rigore, inoltre, un qualche rilievo dovrebbe avere anche l’uso dei distinti termini istruzioni e direttive (alle quali devono attenersi, rispettivamente, l’assistente e il cancelliere), che implicherebbe una maggiore autonomia operativa del cancelliere.
Sono stati sollevati dubbi in relazione al presupposto, necessario per poter adibire gli assistenti giudiziari “anche all’assistenza al magistrato”, costituito dall’”esperienza maturata in almeno un anno di servizio”. La lettera dei contenuti professionali del profilo e la non ragionevolezza, a mio avviso, della tesi che vorrebbe che personale con esperienza spesso pluridecennale, a causa del mero mutamento di denominazione del profilo di appartenenza, abbia bisogno di maturare ulteriore esperienza di un anno per svolgere l’attività in discorso portano a ritenere che, sin dall’entrata in vigore del contratto, tale attività possa essere espletata dal personale dell’Amministrazione giudiziaria appartenente al profilo dell’assistente giudiziario. (Peraltro, se non ricordo male, la primissima stesura del contratto (prima della firma dell’ipotesi stralcio del dicembre 2009), parlava di un periodo ancora più lungo (due anni)).
Appena saranno assunti dipendenti con il profilo-qualifica in discorso, gli stessi dovranno attendere un anno prima di essere adibiti all’assistenza al magistrato. Le nuove assunzioni e i comandi (e i trasferimenti per mobilità) da altre Amministrazioni di personale inquadrabile nella qualifica, risultano essere le ipotesi, al momento prevalentemente teoriche, in cui va applicata la regola in discussione.
Qualche perplessità ha destato anche la stringata elencazione delle mansioni del cancelliere. La circostanza che non vi sia più traccia dell’”esecuzione degli atti attribuiti alla competenza del cancelliere in quanto non riservati alle professionalità superiori” (contratto integrativo 5.4.2000) ha fatto pensare che gli odierni cancellieri non possano più porre in essere tali atti.
Ritengo che per tale categoria di dipendenti nulla sia mutato con il nuovo ordinamento professionale. La “denominazione” (così si esprime la relazione illustrativa al contratto integrativo 27.9.2010) cancelliere rende, a mio avviso, ininfluente la predetta circostanza, determinando la naturale doverosità, per tali dipendenti, del compimento di atti che la legge attribuisce, appunto, al cancelliere. Il superamento, da parte della contrattazione collettiva, del sistema basato su più livelli di qualifica e l’utilizzazione di più profili professionali inquadrati in tre o quattro grandi aree o categorie (sistema che avrebbe dovuto produrre la ricomposizione delle qualifiche sulla base delle concrete mansioni svolte) non deve far dimenticare, in sintonia con l’art. 52 d. lgs. 165/2001 (che, anche dopo il d. lgs. 150/2009, parla di “qualifica (superiore))”, che il nome del profilo indica sinteticamente pur sempre la qualifica oggettiva o contrattuale del lavoratore, cioè “la variante semantica” delle “mansioni convenute” (G. Giugni, con riferimento al rapporto di lavoro privato), “l’espressione riassuntiva di una pluralità di compiti che compongono un determinato tipo o modello di prestazione dedotto in contratto” (C. Pisani, con riferimento specifico al pubblico impiego privatizzato). In definitiva, la qualifica oggettiva si manifesta formalmente nella denominazione del profilo ed esprime sinteticamente tuttora l’oggetto del rapporto di servizio.
Costituisce conferma, a mio avviso, di tale estensione dei compiti dell’odierno cancelliere, e non invece profilo di illegalità dei contenuti del relativo profilo, la circostanza che eventuale ridimensionamento dei compiti del cancelliere entro i confini delle attività di assistenza in udienza e di quelle ad esse connesse, determinerebbe violazione dell’art. 52, 1° comma del d. lgs. 165/2001, nella parte in cui vieta che al lavoratore possano essere affidate mansioni non equivalenti [a norma dell’art. 2, c. 2 d. lgs. 165/2001, come modificato dal d. lgs. 150/2009, “le diverse (rispetto alla normativa di diritto civile) disposizioni contenute nel presente decreto (il citato 165/2001) costituiscono disposizioni a carattere imperativo”]. Come ha spiegato la giurisprudenza, pur con riguardo al rapporto di lavoro privato, infatti, la regola dell’equivalenza riguarda anche l’autonomia collettiva (Cass. S.U., 30.3.2007, n. 7880) e l’adibizione a mansioni inferiori, non equivalenti, sussiste anche in caso di sottrazione di compiti qualitativamente rilevanti (Cass. 10.1.1996, n. 109).
Il discorso sulla qualifica-profilo-denominazione cancelliere, insieme alle osservazioni precedenti circa le diverse formulazioni dei due profili del cancelliere e dell’assistente giudiziario, porta a ritenere che la sovrapposizione, invero parziale, delle due figure professionali si esaurisce nell’attività di assistenza in udienza (e negli adempimenti all’udienza stessa connessi), restando pertanto precluso all’assistente giudiziario il compimento di tutti gli altri atti che la legge attribuisce al “cancelliere”.
Qualche perplessità desta, a mio avviso, la previsione di identiche specifiche professionali per entrambi i profili in discorso. Ci si potrebbe chiedere se non sia il segno, forse, che la trasformazione in atto nel mondo dell’organizzazione del lavoro, ove si assiste a fenomeni di dilatazione del contenuto dei profili, di promiscuità delle mansioni, di abbattimento della parcellizzazione del lavoro e di flessibilità nell’impiego delle risorse umane, e l’incidenza sempre maggiore della tecnologia e dell’informatica, che costituisce di per sé una spinta verso l’omogeneizzazione o la standardizzazione del livello di complessità delle singole attività, orientino per una possibile futura fusione, con ovvio slittamento in alto degli assistenti giudiziari, dei due profili. In ogni caso, mi sembra che detta identità di specifiche professionali rappresenti un aspetto di inopportunità dell’ordinamento professionale.
1.6) Il profilo professionale del funzionario giudiziario.
Cambia, per tale profilo, la denominazione: non più cancelliere C1, ma funzionario giudiziario. Sono dell’avviso che le novità siano costituite dalla previsione di compiti di gestione per la realizzazione (delle linee di indirizzo e) degli obiettivi definiti dai dirigenti e della partecipazione all’attività didattica dell’Amministrazione; compito, quest’ultimo, che appare essere un giusto riconoscimento per l’esperienza e la professionalità maturate negli anni (molti, quasi sempre) di servizio.
Le parti del contratto hanno preferito conservare la previsione del “compimento di tutti gli atti attribuiti dalla legge alla competenza del cancelliere”, atteso che, come è stato osservato da alcuni colleghi dirigenti, il mutamento di denominazione del profilo avrebbe creato seri dubbi sulla permanenza di tali attribuzioni. L’eliminazione del riferimento a compiti del profilo immediatamente inferiore (contratto integrativo 5.4.2000) va spiegata, a mio avviso, liberando il campo da ulteriori possibili effetti sulla ampiezza dei contenuti professionali, con la necessità di adeguare le disposizioni di contratto alla attuale formulazione dell’art. 52 d.lgs. 165/2001, che, rispetto al tenore del vecchio omologo art. 56 d. lgs. 29/1993, esclude, in via generale e per effetto della modifica portata al d. lgs. 29/1993 dal d. lgs. 80/1998 (art. 25), nel dettare la disciplina speciale (rispetto a quella di cui all’art. 2103 c.c.) delle mansioni nel pubblico impiego privatizzato, la previsione di una normale attribuzione di mansioni inferiori, sia pure “occasionalmente” (e di “compiti specifici non prevalenti della qualifica superiore”). Né va sottaciuto il fatto che, con le ulteriori modifiche al decreto 165/2001, la disposizione ha il carattere della imperatività che, come si è visto, è attribuito a tutte le norme del riferito decreto. Resta peraltro salva, a mio avviso e secondo il tradizionale orientamento della giurisprudenza in materia di rapporto di lavoro privato, una eccezionale o quantomeno limitata attribuzione di tali mansioni con il consenso dell’interessato, ove dette mansioni non rechino danno alla professionalità acquisita e rispondano alle esigenze di servizio: anche per tale via si esprime la gestione flessibile e razionale del rapporto.
Le osservazioni appena svolte mi portano a ritenere che possa tuttora essere richiesto al funzionario ex cancelliere C1 espletamento di attività di assistenza in udienza e che tale attività non costituisca, per via del riferimento agli atti del cancelliere, mansione inferiore. Appare ragionevole ritenere, però, che l’evoluzione dell’ordinamento dei profili porti a considerare prevalentemente residuale tale impiego (e comunque da calibrare sulle specifiche esigenze della singola cancelleria), salvo che per quegli uffici – come per alcuni uffici del giudice di pace – le cui piante organiche risultano sprovviste sia di cancellieri, sia di assistenti giudiziari (e ciò costituisce conferma dell’attribuibilità ai funzionari di tali compiti).
Mi sembra che la revisione delle denominazioni dei profili e la riformulazione dei contenuti professionali degli attuali assistenti giudiziari, cancellieri e funzionari giudiziari manifesti l’intento delle parti contraenti di garantire una gestione delle risorse umane flessibile e coerente con la necessità di assicurare la presenza di dipendente nelle udienze (almeno quelle ad assistenza sostanzialmente imprescindibile), in coerenza con la previsione, di cui all’art. 7 del C.C.N.L. comparto Ministeri 14.9.2007, in base alla quale “la previsione dei profili si configura come risorsa organizzativa preordinata ad una gestione più flessibile e razionale del personale”. Formalmente rispettata risulta anche la lettera della disposizione di cui all’art. 8, c. 2, lett. b) del citato contratto, che esclude “la possibilità di costituzione di uno stesso profilo professionale articolato su aree diverse” (la denominazione di cancelliere per i profili-qualifiche degli ex C1 e C2 scompare). Qualche dubbio resta sulla puntuale osservanza dell’altro principio stabilito alla stessa riferita lett. b), cioè quello della “individuazione all’interno delle aree di profili unici con riferimento ai contenuti delle mansioni”.
Mi sembra che, allo stato della evoluzione dell’organizzazione del lavoro, l’osservanza integrale del suddetto principio sacrificherebbe eccessivamente l’esigenza dell’impiego flessibile del personale, già ridimensionato, a mio avviso non certo inopportunamente, con la riferita eliminazione della previsione della possibilità di adibizione a mansioni superiori o inferiori non prevalenti, che ha segnato il superamento della prospettiva della onnicomprensività delle mansioni e il parziale arretramento della correlata dilatazione eccessiva dell’obbligazione contrattuale del lavoratore. Mentre l’eliminazione nella disciplina delle mansioni, sempre nel 1998, dei “compiti complementari e strumentali al perseguimento degli obiettivi di lavoro” nasceva dalla considerazione, maturata nell’ambito dell’esperienza del l’impiego privato, dell’inerenza di tali incombenze all’obbligo di collaborazione del lavoratore e, dunque, alle mansioni di assunzione.
1.7) Il profilo professionale del direttore amministrativo.
L’attuale profilo si caratterizza, rispetto ai precedenti profili dl cancelliere C2 e del cancelliere C3, soprattutto, a mio avviso, per la previsione di “attività ad elevato contenuto specialistico” (per i funzionari giudiziari, il contratto parla di attività di contenuto “soltanto” specialistico) e di compiti di gestione per la realizzazione (delle linee di indirizzo e) degli obiettivi definiti dai dirigenti.
Il riferimento all’”ambito delle procedure amministrative o giudiziarie” dovrebbe consentire l’espletamento anche di atti del cancelliere (per quanto manchi il relativo espresso riferimento), con esclusione, però, dell’attività di assistenza in udienza. La scelta di affidare tale ultimo compito anche all’assistente giudiziario (oltre che al cancelliere e, residualmente, al funzionario giudiziario: il servizio risulta, in tal modo, adeguatamente garantito) appare aver comportato una connotazione separata, nell’ambito della grande famiglia delle attività svolte dal cancelliere (inteso come figura richiamata dal codice), dell’attività di assistenza in udienza, la quale, sino ad eventuale futura fusione verso l’alto dei profili dell’assistente giudiziario e del cancelliere, appare, al tempo stesso, aver subito, pur in un quadro di accentuata flessibilizzazione dell’attività stessa (o, meglio, di accentuato carattere di promiscuità), un parziale trascinamento verso il basso nella gerarchia dei valori professionali e dei profili ed una radicalizzazione dell’assistenza quale attività riconducibile in via primaria al profilo del cancelliere.
Se a ciò aggiungiamo che il nuovo profilo del direttore di cancelleria è il prodotto della fusione dei precedenti profili del cancelliere C2 e del direttore di cancelleria, con conseguente inevitabile accrescimento della dimensione qualitativa, è del tutto ragionevole ritenere che l’assistenza in udienza sia, per i direttori amministrativi, mansione inferiore, pur restandone non giuridicamente impossibile l’assegnazione, purché adottata soltanto in via eccezionale e con il consenso dell’interessato.
2) Gestione del personale, potere direttivo e spunti in tema di diritto e scienza dell’organizzazione.
2.1) Condivisione di poteri direttivi e responsabilità dei servizi.
L’analisi appena fatta dei due profili del direttore di cancelleria e del funzionario giudiziario induce subito ad alcune riflessioni in merito alla interrelazione di tali figure professionali nell’organizzazione e alla condivisione con la dirigenza amministrativa di importanti momenti gestionali.
La redazione dei contenuti professionali dei profili del direttore amministrativo e del funzionario giudiziario secondo una tecnica e un concetto dell’organizzazione del lavoro modernamente ed aziendalisticamente incentrati sul conseguimento di specifici obiettivi e la sottolineatura del pregiato valore specialistico del contributo richiesto porta a ritenere che aumentino gli spazi di autonomia e, correlativamente, di responsabilità di tali figure, con conseguente rafforzamento del potere-dovere di sostituzione o avocazione in relazione alle attività della cancelleria o reparto rispetto al quale sussiste, in concreto, potere di direzione.
La presenza, nel nuovo ordinamento professionale, di profili così definiti ed articolati, in linea con la tradizionale, e per certi versi problematizzante, tendenza all’accrescimento del pregio dei contenuti professionali di ciascun profilo ma in assenza tuttora di progressioni professionali e retributive realmente motivanti, basate sul riconoscimento della professionalità reale ed eventualmente di livello superiore acquisita (è presto per verificare l’esito dei propositi in chiave meritocratica del decreto 150/2009) ripropone la questione della efficace ed utile coesistenza, nella stessa struttura, di dipendenti di grado diverso ma entrambi titolari di importanti poteri direttivi.
Ancor più che in passato, penso che il concetto che deve guidare l’utile coesistenza sia quello di responsabilità, riferibile sia ai propri comportamenti, sia ai comportamenti di coloro sui quali si esercita potere di supremazia gerarchica. In questo secondo caso, responsabilità e gerarchia tendono concettualmente a sovrapporsi, in quanto la prima allora necessariamente presuppone la capacità di vincolare l’altrui comportamento: “se le scelte compiute … non trovassero la possibilità di essere attuate attraverso l’azione di altri … mediante scelte… in misura maggiore o minore sempre vincolate, non si potrebbe parlare di responsabilità di coloro che hanno operato le scelte generali o di grado superiore” [1].
Tuttavia, i due termini restano distinti. Entrambi, infatti, si riferiscono ai comportamenti, ma la responsabilità ne coglie il profilo dell’adeguatezza rispetto a norme e prassi consolidate e la gerarchia attiene all’aspetto relazionale, tendendo ad ordinare i comportamenti di più soggetti per indirizzarli a risultati conformi a quelle norme e quelle prassi.
E’ naturale e necessario al tempo stesso pertanto che sussistano potere gerarchico ed autonomia nei comportamenti organizzativamente rilevanti, nel flusso dell’espletamento dei servizi, laddove chi eserciti tale potere sia nella possibilità giuridica (per il grado superiore rivestito) e materiale (per le conoscenza professionali possedute e per la natura dell’attività che costituisce oggetto del potere di direzione) sia di governare, sia di espletare direttamente una determinata attività.
Si intuisce, in tal senso, quale sia l’interrelazione ineludibile tra l’aspetto giuridico dell’organizzazione del lavoro e della strutturazione dell’apparato amministrativo e le implicazioni, in tema di teoria dell’organizzazione, che chiamano in causa concetti come conoscere, saper fare e saper come fare.
Resta, ad ogni modo, un dato di fatto incontrovertibile circa la relazione direttori amministrativi-funzionari giudiziari: la posizione comunque apicale, nella scala dei valori professionali, assegnata ai direttori amministrativi, a prescindere, questo, dall’assetto organizzativo complessivo delle articolazioni amministrative, che, per scelta di opportunità pensosa delle esigenze di servizio o per ragioni di necessità derivanti dall’esiguità dell’organico, può registrare o non registrare la integrale soggezione di tutto l’apparato amministrativo alla categoria dei direttori amministrativi, senza che residuino articolazioni prive, al vertice interno, di direttore.
L’attribuzione di funzioni vicarie del dirigente amministrativo, la possibilità di reggere l’intero ufficio di cancelleria (o di segreteria) e quella di essere delegati per talune materie e per periodi limitati dal dirigente stesso(“la gestione del personale e delle risorse finanziarie e strumentali”, “l’attuazione dei progetti e delle gestioni assegnati” dai dirigenti generali, “la direzione, il coordinamento e il controllo dell’attività degli uffici…” possono essere delegate ai “dipendenti che ricoprono le posizioni funzionali più elevate”; art. 17, c. 1 bis, lett. d. lgs. 165/2001), la compartecipazione responsabile alla moderna prospettiva del lavorare per obiettivi dimostrano come il ruolo e le funzioni dei direttori amministrativi si innestino, corroborandolo e integrandolo, nello stesso potere gestionale e organizzativo del dirigente.
In un contesto culturale in cui l’evoluzione delle relazioni interpersonali nel mondo del lavoro induce alcuni autori e una parte della giurisprudenza ad affermare che “accanto al modello tradizionale (di stampo taylorista-fordista) della subordinazione-eterodirezione emerge un modello diverso, quello della subordinazione-coordinamento . . . compatibile con un livello anche elevato di autoregolazione o, come anche si è detto, . . . di autonomia nella subordinazione” [2]– tesi, ad avviso di questa Dirigenza, non pienamente condivisibile e che la giurisprudenza comunque non ritiene che intacchi la centralità del modello classico imperniato sulla eterodirezione – appare verosimile ritenere che le potenzialità professionali richiamate nei tre punti precedenti, valutate e interpretate nelle loro reciproche interferenze, prefigurino per i direttori amministrativi una sorta di cogestione diseguale. Ove, per cogestione, deve intendersi la condivisione, con la dirigenza, di poteri gestionali ed organizzativi – dunque di poteri della stessa natura (e, nell’ipotesi della delega, immanenti allo specifico ruolo dirigenziale) – afferenti ad ambiti strutturali (porzioni dell’assetto organizzativo complessivo) o sostanziali (porzioni del mondo delle materie anche solo progettuali dell’ufficio) circoscritti e per diseguale deve intendersi la salvezza delle prerogative dirigenziali tramite la prevalenza, a valle, dell’eventuale dissenso del dirigente, oppure tramite, a monte e per specifiche o più importanti ipotesi, la previsione del previo assenso del dirigente stesso [3].
E, concludendo sul punto, l’attribuzione delle funzioni vicarie ai direttori amministrativi è esaltata dalla riformulazione, ad opera del d.lgs. 150/2009 (c.d. decreto Brunetta) del’art. 5, c. 2 del d. lgs. 165/2001, il quale ha sancito il rafforzamento dell’autonomia delle determinazioni dirigenziali. Sono evidenti, infatti, le implicazioni che detta innovazione comporta in relazione all’esplicazione del potere direttivo-organizzativo anche ad opera dei dipendenti di grado più elevato.
2.2) La Flessibilità fondata sulla onnicomprensività delle mansioni.
Se si passa dal tema dei soggetti dell’attività di direzione e organizzazione al tema della strumentazione di cui si serve tale attività – le mansioni – non può sfuggire come il concetto più ricorrente nelle vicende che hanno interessato e interessano la gestione delle risorse umane nel settore pubblico, più ancora di quanto accade nel settore privato, è quello di flessibilità, che nella letteratura privatistica stessa ha portato alcuni autori a prospettive e concezioni di panflessibilismo, giungendo a disegnare un’evoluzione del mondo del lavoro (privato) che avrebbe portato a bisogni flessibili, ad un’organizzazione flessibile, ad un’impresa flessibile e che sarebbe destinata a trasformare l’uomo stesso in un uomo flessibile [4].
In epoca in cui il settore privato registrava, per l’effetto della modifica dell’art. 2103 c.c. introdotta dalla l. n. 300/1970 (art. 13) la consacrazione del principio di contrattualità delle mansioni (“il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto”) e del principio di equivalenza alle mansioni ultime svolte quale principio-cardine della mobilità endoaziendale, il legislatore della prima privatizzazione (legge delega n. 421/1992 e d. lgs. 29/1993) riteneva congrua la identificazione delle mansioni cui era tenuto il lavoratore in quelle “proprie della qualifica di appartenenza” (art. 56) e ignorava completamente il concetto di equivalenza professionale.
L’efficienza e l’efficacia dell’attività di gestione delle risorse umane della pubblica amministrazione erano ancorate ad un concetto di flessibilità incentrato sulla c.d. onnicomprensività delle mansioni, consistente nella prevista doverosità dei “compiti complementari e strumentali al perseguimento agli obiettivi di lavoro” (art. 56 citato) e nella dilatazione, invero incontrollabile, della dimensione qualitativa dell’oggetto del contratto di lavoro, in conseguenza della riconosciuta possibilità di adibire il lavoratore, non solo a mansioni superiori a carattere non prevalente, ma anche e sia pur occasionalmente e a rotazione, a “compiti o mansioni immediatamente inferiori”. Una flessibilità in pejus, dunque, cioè la dequalificazione pur condizionata alla occasionalità. Risultava, invece, compressa da pesanti limitazioni la flessibilità in melius, la valorizzazione della professionalità attraverso, principalmente, lo strumento della assegnazione di mansioni superiori [5].
2.3.) La flessibilità fondata sulla equivalenza convenzionale.
La successiva riforma del 1998 (d. lgs. n. 80) consentiva un’opportuna omologazione alla disciplina dell’impiego privato.
Le regole sulle quali è incentrata, a partire dalla c.d. seconda privatizzazione portata a compimento nel 1998, la disciplina delle mansioni del lavoratore del settore pubblico sono quelle della contrattualità delle mansioni (“il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni alle mansioni per le quali è stato assunto”) e della equivalenza professionale. Quest’ultima, però, riceveva dal d. lgs. 80, quale termine di riferimento, la qualificazione operata dai contratti collettivi (“mansioni considerate equivalenti nell’ambito della classificazione professionale prevista dai contratti collettivi”, art. 56 [6],) e non, come nel settore privato, le mansioni “ultime effettivamente svolte”.
Come anche accennato al punto 1.6, scompare con il d. 80/1998 ogni riferimento alle mansioni inferiori e scompare la previsione dello svolgimento di compiti complementari e strumentali, i quali, alla stregua di quanto accade nel settore privato, sono considerati come ricompresi nell’”obbligo di collaborazione del lavoratore e, dunque, nelle mansioni di assunzione” [7]. E resta ancora confinata entro limiti angusti la possibilità di attribuzione di mansioni superiori, consolidandosi così la sostanziale mancanza di uno strumento che favorirebbe una flessibilità virtuosa, responsabile e realmente motivante.
A differenza di quanto previsto dall’art. 2103 per il settore privato, il legislatore del rapporto di impiego pubblico privatizzato ha rimesso integralmente alla contrattazione collettiva la disciplina e la stessa giuridica esistenza dell’equivalenza professionale (“mansioni considerate equivalenti” dai contratti collettivi; motivo per cui si è parlato, per il settore pubblico, di equivalenza convenzionale) [8]. Compito della contrattazione collettiva doveva essere, dunque, quello di prevedere e disciplinare l’equivalenza professionale, onde consentirne l’ingresso nel territorio giuridico di elettiva sua operatività, cioè la mobilità orizzontale [9].
La contrattazione collettiva del periodo 1998-2001 ha quasi completamente trascurato il concetto di equivalenza convenzionale, per quanto proprio in quella sede potrebbe identificarsi una nozione di equivalenza meglio calibrata sulle concrete attività svolte negli uffici della P.A..
Così, il C.C.N.L. del comparto Sanità non prevede nulla al riguardo, determinando l’impossibilità della concreta mobilità orizzontale al di fuori dello specifico profilo professionale. L’ultimo contratto del comparto Ministeri (14.9.2007) fa semplicemente eco al dettato dell’art. 52 in versione d. lgs. 80/1998 (“ogni dipendente è tenuto a svolgere le mansioni considerate equivalenti all’interno dell’area, fatte salve quelle per il cui espletamento siano richieste specifiche abilitazioni professionali”), rimettendo al giudice la relativa questione, come regolarmente accade nel settore privato.
2.4) L’ingresso dell’equivalenza legale nel settore pubblico e la flessibilità fondata sulla promiscuità o polivalenza delle mansioni.
L’art. 52 che vien fuori dalle innovazioni introdotte dal d. lgs. 150/2009 ha preso sostanzialmente atto dell’atteggiamento minimalista che la contrattazione collettiva, del resto complessivamente ridimensionata dal decreto 150, ha avuto verso l’equivalenza e ha segnato un ulteriore avvicinamento alla disciplina dell’impiego privato, con la consacrazione legale dell’equivalenza (è stato sufficiente, allo scopo, l’eliminazione del participio “considerate”, riferito in precedenza alle mansioni equivalenti). Le mansioni cui deve essere adibito il dipendente pubblico ora sono quelle di assunzione e quelle equivalenti nell’ambito dell’area di inquadramento. L’ulteriore terza ipotesi prevista dal 1° comma, riguardante le mansioni derivanti da avanzamento a qualifica superiore, registra l’importante eliminazione della possibilità di acquisizione della qualifica superiore con modalità del tutto svincolate da scelte selettive, come, per esempio, l’adozione di sistemi di progressione programmata tramite partecipazione a corsi di formazione (c.d. automatismo di carriera), modalità per le quali hanno ancor più peso le obiezioni fatte dalla Corte Costituzionale con riguardo ai concorsi interni [10].
I contratti collettivi più recenti hanno fatto leva, nella consueta ottica della flessibilizzazione dell’impiego delle risorse umane, su formulazioni, dei contenuti professionali dei profili, “semplificate … più ampie ed esaustive, che evitino descrizioni dei compiti analitiche o dettagliate” (così l’art. 8, c. 2, lett. c) del contratto collettivo del comparto Ministeri del 2007).
Il contratto integrativo del Ministero della Giustizia del 29.7.2010, a sua volta, calando le prescrizioni di contratto di comparto nella realtà dell’attività istituzionale degli apparati amministrativi degli uffici giudiziari, ha razionalmente plasmato i profili professionali agendo su mansioni promiscue o polivalenti, mansioni che vengono cioè “spalmate” su più profili professionali, a cavallo quindi di livelli differenti, con l’accortezza di evitare che taluna di esse esaurisca il contenuto professionale di un qualche profilo.
Formulazioni, dunque, a maglie larghe, tendenzialmente generiche, che articolano e distribuiscono tra i singoli profili mansioni spesso promiscue, coerenti con un ambiente di prestazioni lavorative nel quale hanno rilevo preponderante, istituzionalmente e quantitativamente, le attività di cancelleria e di segreteria (dei magistrati del pubblico ministero), compresa l’assistenza nelle udienze.
La prospettiva della gestione flessibile che i contratti collettivi privilegiano produce l’assimilazione di buona parte degli esiti delle elaborazioni fatte dalla giurisprudenza e dalla dottrina in tema di equivalenza e di promiscuità delle mansioni.
In ordine all’equivalenza, cui appare opportuno riconoscere carattere di concetto aperto e non rigidamente predeterminato, il dibattito si è incentrato sulla lettura in chiave statica (tutela della professionalità acquisita) o dinamica della professionalità (legittimità della assegnazione di mansioni di eguale valore professionale), con la giurisprudenza prevalentemente attestata sulla prima delle due posizioni.
Con riguardo alla promiscuità delle mansioni, riconosciutane in linea di principio la conformità a legge (anche per via dell’assenza di una norma di legge che la escluda), è stato individuato nel ruolo rivestito dal lavoratore nell’organizzazione il parametro per valutare la massima estensione giuridicamente possibile delle mansioni convenute. Si è così affermato che il ruolo consente di “cogliere la tipicità e perciò la inscindibilità oggettiva e non soltanto convenzionale che riveste, nella concreta divisione del lavoro, la prestazione lavorativa globale “promiscua” convenuta” [11]. Per tale motivo, si è ritenuto che sia esclusa una configurazione unitaria della prestazione quando alcuna delle mansioni che dovrebbero comporla sia normalmente svolta da lavoratori appartenenti a qualifica inferiore che contempli, nella sua declaratoria, quella mansione. Quest’ultima, quindi, riconosciuta esorbitante rispetto al ruolo come sopra inteso, si caratterizzerebbe come mansione inferiore per il lavoratore interessato [12].
Alla formulazione dei contenuti professionali occorre riferirsi, poi, per individuare, nell’ambito di un profilo che presenti mansioni promiscue, la mansione primaria o caratterizzante, che viene individuata utilizzando il criterio qualitativo o quello quantitativo (o, ancora, un criterio misto). Tale mansione dovrà costituire il fulcro intorno al quale ricostruire una precisa identità della qualifica e il riferimento essenziale nella assegnazione dei compiti in concreto, pur nella specificità della singola organizzazione.
Riallacciandoci a quanto detto passando in rassegna i singoli profili professionali dell’Amministrazione giudiziaria, gli atti del cancelliere risultano distribuiti sui profili del cancelliere, del funzionario giudiziario e del direttore amministrativo; l’attività di assistenza in udienza appare assegnata promiscuamente ai primi due profili e a quello, inferiore, dell’assistente giudiziario.
Gli atti del cancelliere appaiono essere la mansione primaria o caratterizzante del profilo del funzionario giudiziario; l’assistenza in udienza si configura come attività primaria del profilo del cancelliere.
Il discorso conferma l’estraneità del compito di assistenza in udienza al profilo del direttore amministrativo. Infatti, si tratta di mansione (promiscua) normalmente (in concreto) assegnata al cancelliere, della quale non è dato cogliere un legame inscindibile, in unica configurazione, con le altre attività assegnate al profilo del direttore amministrativo.
Perplessità sorgono in relazione alla mansione primaria o caratterizzante intorno alla quale appare costruito il profilo del direttore amministrativo. Mansione che consiste nello svolgimento di attività di elevato contenuto specialistico.
Una previsione forse troppo generica, anche perché l’indicazione della attinenza di dette attività all’”ambito delle procedure amministrative o giudiziarie” non aiuta molto a circoscriverne adeguatamente il campo di afferenza ed operatività. Del resto, in un ambito di attività istituzionali predeterminate e note alle parti del contratto integrativo, una più puntuale identificazione di tali attività avrebbe evitato, senza cadere in un eccesso di dettaglio, una delega forse troppo ampia al potere di conformazione-specificazione delle mansioni del quale sono titolari i dirigenti amministrativi.
Detto diversamente e impiegando il concetto di equivalenza, l’assistenza in udienza è, per esempio, certamente attività non ad elevato contenuto specialistico e senz’altro riconducibile anch’essa alle procedure giudiziarie; e la capacità professionale propria di quel profilo non richiede, coerentemente, l’attitudine a svolgere compiti di particolare pregio specialistico. L’attività didattica e ispettiva prevista per i direttori amministrativi è verosimilmente attività ad elevato contenuto specialistico, ma quest’ultima qualificazione non significa che abbiamo in tal modo colto l’esito di un giudizio di equivalenza, interno al profilo, che parifichi quei due tipi di attività a quella tipologia generica posta all’inizio dei contenuti professionali, equivalenza che invece dobbiamo ritenere che sussista tra attività di docenza e attività ispettiva stesse nel momento in cui diciamo che entrambe sono attività di elevata specializzazione; ma è, quella qualificazione, appunto, una mera qualificazione che ha ad oggetto specifiche attività, cioè una specificazione del grado di difficoltà e complessità della mansione sostanziata dalla docenza o dall’incarico ispettivo. Dunque, un quid che attiene più esattamente non ai contenuti professionali, ma alle specifiche professionali, al “livello di complessità, responsabilità ed autonomia richiesto per lo svolgimento delle mansioni ricomprese nel profilo” (art. 7, c. 2 contratto collettivo comparto Ministeri 2007).
Conclusioni
Il contratto collettivo integrativo del 29.7.2010 è una conquista per alcuni, un errore per altri. Non è assolutamente mio compito, ovviamente, esprimere un giudizio in proposito.
Precisata la mia totale estraneità al suddetto dibattito, mi sembra che una minima attenzione meriti il fatto storico consistente nel progressivo accrescimento del valore professionale dei singoli profili. Questa tecnica, che consente, senza dubbio apprezzabilmente, di soddisfare le aspettative di alcune categorie di lavoratori, tradisce, a mio avviso, la sensazione della inesorabilità di una insoddisfazione generale di fondo dei dipendenti pubblici, alla quale invece occorrerebbe probabilmente far fronte con altri più motivanti sistemi. Effetto del richiamato progressivo accrescimento e della previsione di profili molto ampi e flessibilizzati attraverso il meccanismo della promiscuità può, poi, essere l’indeterminatezza o l’indeterminabilità dell’oggetto del contratto di lavoro subordinato, circostanza rilevante ai sensi degli artt. 1346 e 1418 c. c..
Quanto osservato non mette in discussione la razionalità e l’opportunità di base della scelta di operare per formulazioni mansionistiche ampie e polivalenti, secondo moduli di organizzazione del lavoro del resto già adottati con successo nel settore privato, in particolare con riguardo ai chimici e ai bancari.
Alla luce di quella diffusa demotivazione del personale delle Amministrazioni pubbliche alla quale facevo poc’anzi riferimento, tuttavia, andrebbe ripensata e auspicabilmente rettificata quella relazione per cui l’ampiezza delle formulazioni mansionistiche finisce di fatto, talvolta, con l’essere funzionale alla mortificazione della qualificazione come superiori che talvolta le mansioni svolte effettivamente da alcuni dipendenti assumono, o quanto meno dovrebbero assumere.
L’ambiente privatistico in cui tale qualificazione si muove ormai da anni ne dovrebbe favorire un più frequente formale riconoscimento, in linea con l’orientamento della Corte Costituzionale, che ne ha sottolineato la coerenza con le esigenze di buon andamento dell’Amministrazione pubblica [13].
Antiche logiche orientate da ”pregiudizi e luoghi comuni“ [14] dovrebbero cedere il passo ad una concezione realmente moderna di organizzazione pubblica, nella quale trovino cittadinanza – accanto a insistite logiche privatisticamente orientate al perseguimento di obiettivi comunque insopprimibilmente pubblici e inevitabilmente schiacciati o quanto meno conformati da precostituite finalità istituzionali – meccanismi virtuosi di impiego e valorizzazione delle risorse umane che sappiano coniugare la meritocrazia dei risultati e delle valutazioni con la opportunità di poter tempestivamente salvaguardare esigenze organizzative che non possono essere soddisfatte esclusivamente con strumenti basati sulla forma della classificazione professionale e sulla forma delle piante organiche e che richiedono l’impiego efficace, immediato e adeguatamente remunerato della professionalità sostanziale dei dipendenti, talvolta superiore a quella formalmente richiesta dal profilo di appartenenza [15].
L’obiettivo di semplificare le procedure e di rendere flessibile e più efficace la gestione del personale dovrebbe, infine, portare a rimeditare la strumento dell’applicazione, che nell’ambito del circondario andrebbe, a mio avviso, ricondotto, modificando la disposizione contenuta nell’art. 14 del contratto 27.3.2007 sulla mobilità del personale, al potere gestionale del dirigente amministrativo e al potere di controllo (sull’attività complessiva di quest’ultimo) del Presidente del tribunale.
Bari-Trani, 14.10.2010
Dott. Giulio Bruno
Note
- I direttori amministrativi costituiscono il più elevato termine di riconduzione soggettiva delle esigenze pubbliche oggettivate nei servizi, il più alto livello istituzionale e organizzatorio di appartenenza-titolarità dei servizi. Ciò non esclude la diretta responsabilità dei servizi affidati ai funzionari giudiziari (ex cancellieri C1), diretta responsabilità che, infatti, è del tutto insuscettibile di affievolimento per effetto della posizione di direzione attribuita ai direttori amministrativi.
- S. Cecconi, in “Il diritto del lavoro, vol. III – il lavoro pubblico”, a cura di Amoroso, Di Cerbo, Fiorillo, Maresca; Giuffrè, 2007, pag. 638. Per l’autore, le mansioni inferiori restano comunque attribuibili, senza contraddire radicalmente il principio di equivalenza, attraverso un’operazione di “conglobamento” delle stesse in unica composita prestazione lavorativa o, come ritenuto dalla giurisprudenza formatasi in ambito privatistico, con una decisone assunta in via eccezionale e con il consenso dell’interessato (pag. 639).
- In tal senso appare posizionata la dottrina prevalente. C. Pisani, “mansioni e trasferimento nel lavoro privato e pubblico”, UTET, 2009, pag. 129, afferma così che “in assenza di sue previsioni (del contratto collettivo) al riguardo, non potrebbe neppure ammettersi la mobilità orizzontale esterna alla qualifica di assunzione …”. E negli stessi termini si è espressa la Corte di Cassazione (sent. 5.7.2005, n. 14193).
- Il principio riguarda “qualsiasi vicenda modificativa delle mansioni dedotte in contratto: sia temporanea che definitiva, sia che comporti lo spostamento su altre posizioni di lavoro; sia che attenga soltanto ai compiti inerenti la medesima posizione … ; sia che si sostanzi in una sottrazione parziale di mansioni qualitativamente rilevanti, sia che si traduca in una totale privazione di ogni compito …”, C. Pisani, op. cit., pag. 17.
- Per P. Allevi, op. cit. pag. 1549, “la regola costituente l’auspicato punto di arrivo è che l’adibizione del lavoratore pubblico a mansioni superiori è legittima e produttiva del diritto alle differenze economiche, purché giustificata da obiettive ragioni di servizio e disposta con osservanza della parità di trattamento”.